Raptus, gelosia, sensazionalismo e morbosità: i media e la violenza sulle donne
15 min letturaI fatti di cronaca delle ultime settimane hanno portato di nuovo il tema della violenza sulle donne al centro del dibattito pubblico. Abbiamo ricostruito come i media hanno parlato di questi episodi, analizzando con l'aiuto di esperti quali sono le criticità e gli errori di un racconto basato su stereotipi, sensazionalismo e che molte volte finisce per non rispettare le vittime.
Il "raptus" e il “crimine di passione”
Lo scorso 3 settembre una ragazza di 16 anni, Noemi Durini, è scomparsa da Specchia, in provincia di Lecce, dopo essere uscita di casa alle prime ore del mattino. L’ultima persona ad averla vista è un diciassettenne con cui l’adolescente aveva una relazione da circa un anno. La sera del 13 settembre il ragazzo ha confessato ai carabinieri di aver ucciso Noemi, conducendoli nel luogo dove è stata ritrovata, nascosta sotto dei sassi.
In un primo momento il diciassettenne ha detto di aver agito perché lei voleva lasciarlo, successivamente ha cambiato versione, affermando di aver ucciso Noemi per proteggere i genitori, che lei avrebbe voluto “sterminare” perché contrari alla loro relazione. La famiglia di Noemi, invece, aveva segnalato alla magistratura minorile il ragazzo a causa del suo comportamento violento nei confronti della figlia.
Nonostante si tratti di un episodio molto cruento, per raccontare l'intera vicenda sui media sono stati usati per lo più termini e parole riconducibili alla sfera amorosa. Il killer, ad esempio, è stato indicato frequentemente con l’appellativo di “fidanzatino” di Noemi, descritto come “quel ragazzino che l’amava in maniera così morbosa”. Diversi siti parlano di “amore malato” o “amore sbagliato”, e hanno trovato molto spazio dichiarazioni del diciassettenne del tipo “l’amavo moltissimo, ma l’ho ammazzata”.
Una ricerca condotta nel 2014 dal dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna su articoli di cronaca riguardanti casi di donne uccise dai partner pubblicati su tre quotidiani italiani nel 2012 (Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa) ha mostrato come questa sorta di “romanticismo della violenza” faccia parte di un codice narrativo molto utilizzato dai media in questi casi. Su 116 articoli esaminati, 92 presentavano la vicenda come collegata a una “dimensione d’amore e passione, sottintendendo l’esistenza di una connessione forte tra il femminicidio della partner e uno stato di amore tormentato”. I principali motivi del “crimine di passione” erano “la gelosia e l’incapacità di accettare la decisione del partner di terminare la relazione” a cui veniva accompagnata una “perdita di controllo” da parte dell’uomo. Il Corriere, ad esempio, nel marzo del 2012 titolava: “Delitto nel Veronese, strangola la moglie con un foulard per gelosia”; mentre La Stampa a maggio dello stesso anno scriveva che un uomo aveva ucciso “la donna della sua vita, che lo aveva lasciato, sparandole”, perché “non si era rassegnato all’idea di perderla”.
Donna uccisa in Brianza, l'ex ammette di averle sparato non sopportava la fine della loro relazione https://t.co/ZfVzQolqlD
— Agenzia ANSA (@Agenzia_Ansa) August 30, 2016
Anche in casi più recenti, il frame è lo stesso. Nel raccontare il femminicidio di Sara Di Pietrantonio, la ragazza di 22 anni bruciata viva dall’ex fidanzato a Roma nel 2016, sono state spesso riportate le affermazioni del killer Vincenzo Paduano, che non “sopportava che fosse finita”. Così ad esempio scriveva l’HuffingtonPost: “La loro storia era cominciata due anni fa ed era stata segnata da rotture e riprese. Da qualche settimana, però, Sara aveva un'altra relazione e questo ha fatto perdere la testa a Paduano”.
In generale, basta digitare nella barra di ricerca di Google “uccisa per gelosia” o “non sopportava la fine della relazione” per vedere spuntare nuovi e diversi articoli che seguono questa narrazione su giornali locali, nazionali e siti minori.
Secondo le ricercatrici di Bologna, rifacendosi ad “amore romantico” e “perdita di controllo” da un lato si sostiene “che i femminicidi vadano intesi come il tragico e inaspettato epilogo di una contingente mancanza di capacità di discernimento dell’individuo”, dall’altro si “mitigano le responsabilità del killer per il crimine commesso”, suscitando “una rappresentazione simpatetica” di lui.
«Il femminicidio – spiega però a Valigia Blu Lella Palladino, consigliera dell’associazione D.i.Re e presidente della cooperativa E.V.A., che gestisce alcuni Centri antiviolenza in Campania – va messo in connessione con quello che è accaduto prima. Di solito l’uccisione non è che l’atto finale di violenze che le donne hanno subito nella coppia. Anche nel caso della ragazzina pugliese di 16 anni è stato così: c’erano state una serie di violenze denunciate dalla mamma, e di cui Noemi era diventata consapevole». «Riducendo tutto alla sfera amorosa – aggiunge – non viene neanche evidenziata l’ambivalenza nella percezione tra quello che è gelosia e quello che è controllo, tra quello che è normale routine in una coppia e quella che è sopraffazione. Questo non aiuta le donne ad avere consapevolezza, è solo un perpetuare di stereotipi».
A rafforzare la visione del femminicidio come un evento imprevedibile contribuisce anche l’elemento del “raptus”, un impulso improvviso e incontrollato che spinge a comportamenti per lo più violenti. Per l’indagine dell’ateneo bolognese, il suo uso implica una colpevolizzazione della vittima: avrebbe potuto prefigurarsi i motivi della “perdita di controllo”, e in qualche modo ha meritato quanto le è accaduto.
È stato un "raptus" quello di Francesco Mazzega, che la sera del 31 luglio ha ucciso la sua fidanzata Nadia Orlando, vagando poi con il suo corpo in macchina per tutta la notte a Palmanova, in Friuli; lo è stato quello di Luigi Sibilio che il 18 maggio in Veneto ha accoltellato a morte Natasha Bettiolo, di cui si era invaghito; ed è stato un “raptus nel sonno” quello che ha fatto sì che lo scorso aprile Salvatore Pirronello ammazzasse la sua convivente, Patrizia Formica, mentre era a letto nella sua casa in provincia di Catania.
Secondo il dottor Claudio Mencacci, che è stato presidente della Società italiana di psichiatria (Sip), però, sostanzialmente il raptus «non esiste» e «spesso se ne fa un uso giustificazionista e assolvente. Normalmente c’è una lunga preparazione e un’attitudine alla violenza e all’aggressività, che trova un momento culminante già precedentemente manifestato». Non c’è, aggiunge, una connessione tra raptus omicida e femminicidio: «Si deve parlare di omicidio di genere e si deve tornare a parlare di sopraffazione, prepotenza e violenza».
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Nonostante ci sia “un’attenzione crescente sulla violenza sulle donne”, secondo la ricerca dell’Università di Bologna la narrazione del femminicidio sui media italiani “riproduce largamente miti e stereotipi della violenza di genere”: sembra che “i giornali non dispongano di un modo” per spiegare perché “uomini ordinari uccidano le partner che amano”.
«Non viene mai raccontato da dove nasce la violenza – precisa Palladino - Sembra che sia qualcosa che origina dalla malattia mentale di alcuni uomini, o dalla distorsione della relazione. Quello che i giornali dovrebbero dire è che nasce dall’ancora forte subordinazione delle donne, dal disequilibrio di genere».
La spettacolarizzazione del dolore
A questo tipo di narrazione, va aggiunta una certa morbosità nei casi più cruenti. Secondo un’analisi del Osservatorio di Pavia, in numerose trasmissioni televisive, in generale “episodi di cronaca nera diventano storie da narrare, arricchite di colpi di scena, rivelazioni vere o presunte, dichiarazioni di persone coinvolte, ritratti di personaggi”. Quando il racconto si tinge di drammaticità “può perdere contatto con la ricerca della verità, e soprattutto con la pertinenza e la continenza formale necessarie alla trattazione del tema”.
Lo scorso 13 settembre la trasmissione Chi l’ha visto? ha mandato in onda un’intervista ai genitori dell’assassino di Noemi Durini, durante la quale l’inviata Paola Grauso ha comunicato loro prima il ritrovamento della ragazza "morta", poi l’avvenuta confessione del figlio. Una modalità simile si era verificata anche nel 2010 con il delitto di Avetrana, quando, nel corso della stessa trasmissione, è stata comunicata alla madre di Sarah Scazzi la notizia del ritrovamento del corpo della figlia.
"E' finita" Siamo morti!": i genitori del fidanzato di #Noemi apprendono della confessione del figlio durante l'intervista a #chilhavisto pic.twitter.com/ss2Kvr2nnJ
— Chi l'ha visto? (@chilhavistorai3) September 13, 2017
La scelta del programma di Rai Tre ha subito diverse critiche, anche da parte dei telespettatori. Buona parte dei siti di informazione e giornali ha ripreso comunque il filmato, caricandolo sui propri portali.
La ricerca della spettacolarizzazione, prosegue l’analisi dell’Osservatorio di Pavia, viene perseguita “talvolta anche nell'incuranza della sensibilità di chi sta davanti alla TV, (...) un pubblico che subisce descrizioni meticolose sui tagli inferti alla vittima, sullo stato di decomposizione di un cadavere, su come sia possibile saltellare fra macchie di sangue senza sporcarsi le scarpe”.
Se questo è vero in generale, vale doppiamente per i casi di femminicidio. «La violenza da sempre è qualcosa che attira l’attenzione della pubblica opinione: crea sconvolgimento, e viene utilizzata da tempo per vendere più copie, fare più audience o visite», spiega a Valigia Blu Chiara Cretella, esperta di politiche di genere. «Nel caso specifico della violenza contro le donne – continua – c’è un surplus di erotizzazione dato dal corpo femminile brutalizzato, violentato, malmenato, ucciso e quindi a disposizione dello spettatore».
Il Messaggero, ad esempio, ha dato conto delle condizioni fisiche in cui è stato ritrovato il corpo di Noemi, delle ferite presenti, di quanto fosse o non fosse riconoscibile; Il Corriere della Sera, invece, ha riportato la deposizione dell’assassino, titolando sul rapporto sessuale che ci sarebbe stato tra i due adolescenti prima che Noemi fosse colpita mortalmente alla testa. Una dinamica simile è quella della pubblicazione (su Libero e non solo) dei particolareggiati verbali delle deposizioni delle donne vittime di stupro a Rimini.
«Il meccanismo estetico è un po’ quello dei film di Quentin Tarantino. I mass media utilizzano lo stesso paradigma, alcune volte in maniera pienamente consapevole, altre facendo degli errori veramente grossolani», precisa Cretella. Collegata a questo aspetto è l’enfasi sull’avvenenza o giovinezza della vittima. Secondo un’analisi del progetto Questione d’Immagine, sui giornali italiani prevale una “visione del femminicidio portato sulla bellezza e la desiderabilità femminile come elemento narrativo” e “persino come valore-notizia che orienta la scelta e la messa in pagina delle news”.
Da questo stereotipo, spiega Cretella, «sono escluse tutta una serie di figurazioni: ad esempio se la vittima è anziana o non è più bella. Come il caso di Gloria Rosboch, uccisa nel 2016: in quel caso tutti i giornali sottolinearono la sua bruttezza, il suo non essere giovane, sottintendendo che una donna di quel genere che si permette di innamorarsi di un ragazzo piacente se l’è cercata». Nel caso in cui la vittima sia giovane e bella, «purtroppo la sua immagine viene diffusa su tutti i giornali». Magari saccheggiando i profili social.
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La rappresentazione mediatica dello stupro
Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre due episodi di violenza sessuale hanno catalizzato l’attenzione mediatica. Il primo è avvenuto su una spiaggia di Rimini, la notte dello scorso 26 agosto: quattro uomini stranieri hanno aggredito e stuprato una giovane turista polacca, picchiando il ragazzo che si trovava con lei; successivamente, in una strada poco lontana, hanno violentato anche una donna transessuale peruviana. Il secondo episodio, invece, si è verificato a Firenze: nella notte tra il 6 e il 7 settembre due studentesse americane hanno denunciato di essere state stuprate da due carabinieri che le avevano riaccompagnate a casa con la macchina di servizio.
Delle due vicende si è parlato tanto, seppur in maniera diversa. Secondo Marco Bruno, sociologo della comunicazione all’università La Sapienza di Roma, «il comune denominatore per i casi di Rimini e Firenze è una sorta di disprezzo delle vittime». Nel primo caso, «non interessavano più di tanto: interessava chi ha commesso il fatto per costruire la campagna politica». Per Firenze, invece, «la chiave di lettura è pesantemente denigratoria nei confronti delle ragazze americane».
Il dibattito che si è scatenato attorno agli stupri di Rimini si è infatti incentrato sulla nazionalità degli aggressori, tutti e quattro stranieri e originari di Marocco, Congo e Nigeria. Il focus sulla provenienza degli stupratori ha praticamente eliminato le vittime dal racconto – e per la verità la donna transessuale è stata a stento nominata.
Lo scorso 6 settembre Libero ha pubblicato un articolo in cui si riportavano quasi integralmente i verbali delle deposizioni delle vittime, che raccontano dettagliatamente gli abusi subiti. Il titolo è piuttosto eloquente: “Le bestie di Rimini. Violenze disumane e doppia penetrazione”. Il Giornale ha ripreso la notizia, mentre alcuni stralci delle denunce sono stati pubblicati dal Corriere.
La scelta di pubblicare i verbali ha sollevato diverse critiche. Le Commissioni pari opportunità della Fnsi (Federazione nazionale della stampa italiana), dell’Ordine dei giornalisti e dell’Usigrai e l’associazione GIULIA hanno presentato un esposto ai Consigli di disciplina degli Ordini della Lombardia e del Lazio, contro l’articolo di Libero, che ammicca “alla curiosità morbosa dei lettori” e fa “leva sul sensazionalismo, incurante del diritto delle vittime alla privacy e del rispetto dovuto alle vittime”.
Nel caso delle violenze sessuali di Firenze, invece, la chiave è stata quella di accogliere ipotesi giustificatorie nei confronti dei carabinieri, e gettare discredito verso le due studentesse, la cui versione è stata sin da subito definita “oscura, strampalata, piena di dubbi e contraddizioni, messaggera di verità o di menzogna e che rischia di gettare ombre e fango su un’istituzione, i carabinieri, simbolo di legalità e giustizia”. Ad esempio si è insistito molto sul fatto che le ragazze avessero bevuto e fumato, sottintendendo che questo comportamento potesse aver avuto un ruolo nel verificarsi della violenza.
Intorno alla vicenda sono anche iniziate a circolare notizie false. Molti giornali hanno scritto che le ragazze, così come buona parte delle studentesse americane, avrebbero avuto una specifica assicurazione contro lo stupro. Si è insinuato, così, che la denuncia potesse essere strumentale. Questa circostanza – smentita poi dall’avvocato delle ragazze – è stata riportata da diversi giornali, che poi hanno cancellato il riferimento (come Repubblica che poi ha modificato il pezzo. Su Il Secolo XIX e sul Giornale, invece, si trova ancora). Un altro dato non veritiero riguarda i numeri delle denunce per stupro poi rivelatesi false. Luca Sofri ha fatto notare come alcuni giornali e siti di news (ndr tra i primi a pubblicare il dato La Stampa, Il Messaggero, il Corriere della Sera) abbiano riportato che ogni anno solo a Firenze vengono presentate da ragazze americane dalle 150 alle 200 denunce per stupro delle quali il 90% risulta completamente inventato. La stima, però, si è rivelata priva di qualsiasi fondamento.
Il discredito e la minimizzazione di quanto subito dalle due ragazze di Firenze sono molto frequenti secondo Lella Palladino: «Anche qui si rafforzano solo stereotipi. Il linguaggio che si usa per lo stupro è vouyeuristico o da vittima, che sottolinea la fragilità delle donne, o le colpevolizza perché hanno bevuto, sono andate in giro vestite in un certo modo. Non ce n’è bisogno, queste cose le donne se le dicono da sole. Lo stupro credo sia l’unico reato in cui la vittima rimprovera se stessa». La colpevolizzazione, tra altro, fa sì che molte donne rinuncino a denunciare per paura di non essere credute.
Sulla scia degli stupri di Rimini, soprattutto, e di altri episodi verificatisi nelle ultime settimane, molti giornali hanno iniziato a parlare di “emergenza stupri”. Il Messaggero, in particolare, ha lanciato una campagna dal titolo “Roma insicura, un manuale per donne” con la quale si chiede all’amministrazione più sorveglianza e si mettono in guardia le donne dall’evitare “situazioni pericolose” e accettare protezione arrendendosi alla “necessità di riconoscere i rischi e le debolezze del destino femminile”.
La campagna del Messaggero/ #roma insicura, un manuale per le donne https://t.co/OWJhEgZaJz
— Il Messaggero (@ilmessaggeroit) September 14, 2017
Per Palladino «non esiste nessuna emergenza, il problema è strutturale e cronico. I casi che ci sono stati sono gravissimi, ma la maggior parte degli stupri si consuma tra le mura di casa, e sono anche difficili da percepire come reati. Giornali, radio e tv dovrebbero parlarne ogni giorno. Su questo invece non c’è mai attenzione mentre l’evento fa notizia perché può essere strumentalizzato». Per questo, aggiunge, «i media si concentrano su quelli perpetrati dagli sconosciuti, che poi è il fantasma con cui le ragazzine crescono e vengono educate. Così però si rischia di credere che lo stupro sia solo quello».
Nel saggio Le Viol, un crime presque ordinaire scritto da due giornalisti francesi viene ricostruito il trattamento ricevuto dai casi di stupro dai giornali: “Nello spazio mediatico lo stupratore seriale è largamente più presente del nonno che aggredisce i suoi nipotini (…). Quando una giovane donna viene violentata in un bosco mentre stava facendo del footing, tutti ne parlano. Un incesto non interessa quasi a nessuno. I drammi che si consumano a bassa voce, frequenti ma poco visibili, non interessa ai media. Perché quello che viene nascosto, dalla sfera familiare per esempio, è un argomento di inchiesta molto difficile. I giornalisti non hanno tempo e si precipitano su ciò che corre veloce". Nel libro viene riportata un’intervista a un cronista giudiziario secondo il quale “il problema della violenza è che si tratta di storie che fanno vendere. Mi ricordo dei colleghi della stampa scritta, a cui i capi dicevano: ‘per i dettagli ti lascio libero di scegliere, ma se puoi sapere la marca delle mutande...”.
Come si dovrebbe parlare di violenza sulle donne
Pochi giorni fa il Garante per la protezione dei dati personali ha emesso una comunicazione invitando i media “ad astenersi dal riportare informazioni e dettagli che possano condurre, anche in via indiretta, alla identificazione delle vittime” nei casi di violenza sessuale.
Più in generale l’Ordine dei giornalisti ha adottato un documento della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ) relativo a come parlare di violenza sulle donne sui media. Si tratta di un decalogo in dieci punti:
1. Identificare la violenza inflitta alla donna in modo preciso attraverso la definizione internazionale contenuta nella Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1993 sull'eliminazione della violenza nei confronti delle donne.
2. Utilizzare un linguaggio esatto e libero da pregiudizi. Per esempio, uno stupro o un tentato stupro non possono venire assimilati a una normale relazione sessuale; il traffico di donne non va confuso con la prostituzione. I giornalisti dovranno riflettere sul grado di dettagli che desiderano rivelare. L'eccesso di dettagli rischia di far precipitare il reportage nel sensazionalismo. Così come l'assenza di dettagli rischia di ridurre o banalizzare la gravità della situazione. Evitare di suggerire che la sopravvissuta è colpevole o che è stata responsabile degli attacchi o degli atti di violenza subiti.
3. Le persone colpite da questo genere di trauma non necessariamente desiderano essere definite "vittime", a meno che non utilizzino esse stesse questa parola. Venir etichettati può infatti far molto male. Un termine più appropriato potrebbe essere "sopravvissuta".
4. La considerazione dei bisogni della sopravvissuta quando la si intervista consente di realizzare un reportage responsabile. Può trattarsi di un dramma sociale. Permettere alla sopravvissuta di essere intervistata da una donna, in un luogo sicuro e riservato, fa parte della considerazione di questo dramma. Si tratta di evitare di esporre le persone intervistate ad abusi ulteriori. Certi comportamenti possono mettere a rischio la loro vita e la loro posizione in seno alla comunità d'appartenenza.
5. Trattare la sopravvissuta con rispetto, tutendola la sua privacy e informandola in maniera completa e dettagliata sugli argomenti che saranno trattati nel corso dell'intervista e sulle modalità d'uso dell'intervista stessa. Le sopravvissute hanno il diritto di rifiutarsi di rispondere alle domande e di divulgare più informazioni di quanto non desiderino. Rendersi disponibile per un contatto ulteriore con la persona intervistata e lasciare le proprie generalità le permetterà di restare in contatto con il/la giornalista se lo vuole o ne ha bisogno.
6. L'uso di statistiche e informazioni sull'ambito sociale permette di collocare la violenza nel proprio contesto, nell'ambito di una comunità o di un conflitto. I lettori e il pubblico devono ricevere un'informazione su larga scala. L'opinione di esperti, come quelli dei DART (Centri post-traumatici), permette di rendere più comprensibile al pubblico l'argomento, fornendo informazioni precise e utili. Ciò contribuirà ad allontanare l'idea che la violenza contro le donne sia una tragedia inesplicabile e irrisolvibile.
7. Raccontare la vicenda per intero: a volte i media isolano incidenti specifici e si concentrano sul loro aspetto tragico. La violenza potrebbe inscriversi in un problema sociale ricorrente, in un conflitto armato o nella storia d'una comunità.
8. Preservare la riservatezza: fra i doveri deontologici dei giornalisti c'è la responsabilità etica di non citare i nomi e non identificare i luoghi la cui indicazione potrebbe mettere a rischio la sicurezza e la serenità delle sopravvissute e dei loro testimoni. Una posta particolarmente importante allorché i responsabili della violenza sono forze dell'ordine, forze armate impegnate in un conflitto, funzionari di uno stato o d'un governo o infine membri di organizzazioni potenti.
9. Utilizzare le fonti locali. I media che assumono informazioni da esperti, da organizzazioni di donne o territoriali su quali possano essere le migliori tecniche d'intervista, le domande opportune e le regole del posto, otterranno buoni risultati ed eviteranno situazioni imbarazzanti od ostili; come accade quando un cameraman o un giornalista s'introducono in spazi privati o riservati senza alcuna autorizzazione. Da qui l'utilità d'informarsi precedentemente sui contesti culturali locali.
10. Fornire informazioni utili: un reportage che citi i recapiti di persone qualificate da contattare, così come le generalità delle organizzazioni e dei servizi d'assistenza, sarà d’aiuto fondamentale alle sopravvissute, ai testimoni e ai loro familiari, ma anche a tutte le altre persone che potranno venire colpite da un'analoga violenza.
La Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne all’articolo 17 chiede che si incoraggi “il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità”.
Marina Cosi, presidente della rete GIULIA, spiega a Valigia Blu che nonostante ci sia ancora molto da fare «qualcosa è già cambiato. In alcuni giornalisti c’è una nuova sensibilità, in altri per lo meno la percezione che ci sia qualcosa di sbagliato nel linguaggio. La battaglia che portiamo avanti ha dato qualche frutto. Penso però che molti agiscano con il pilota automatico, senza rendersi conto». Di fronte a cose «come i verbali pubblicati o titoli urlati, credo che ci sia però consapevolezza della scorrettezza messa in atto. Ci si passa sopra per intenti di diffusione, meramente merceologici. E questo è il motivo per cui oltre a fare iniziative di formazione, negli ultimi tempi abbiamo fatto degli esposti».
Quello che è fondamentale, secondo Cosi, è che ci sia formazione e soprattutto una riflessione a tutti i livelli: «Spesso mi sono sentita rispondere dai colleghi: ‘Se non faccio così chiudo’. Bene, in questi casi si dice: ‘Chiudi’. Non è perché si è in guerra si aderisce alle posizioni del nemico, mi si passino i termini militari. Credo che i giornalisti debbano recuperare l’orgoglio del proprio ruolo, e la consapevolezza dell’incidenza nel mondo in cui viviamo».
Immagine in anteprima di Stefania Anarkikka Spanò